Il Manifesto. Alias
n°12 del 24/3/2001

LÈGGERE JEAN CLAUDE AMEISEN, E CAMBIANO I CONCETTI VITA/MORTE

Il suicidio-scultura delle cellule

Un saggio-affresco sul suicidio naturale delle cellule («Al cuore della vita», dell'immunologo
francese Ameisen), che descrivendo la morte «elementare» finisce per dialogare con quella dei
filosofi, e ribalta le opinioni più comuni: quando decide di morire, la cellula è creativa come uno
scultore


di Pietro Greco

La vita, cos'è la vita? È riuscire, istante dopo istante, a reprimere una perpetua e travolgente
pulsione al suicidio. E la morte, cos'è la morte? È rimuovere, a un certo punto, ogni resistenza,
avvisare con ritegno i vicini, e andarsene con lucida e composta dignità, staccando da soli la
spina, ma facendosi assistere negli ultimi istanti prima del sereno trapasso. Sì, la vita dell'unità
elementare della vita, la cellula, è la capacità di resistere alla voglia di suicidio. E la morte cellulare
è una dolce morte: un suicidio lucido, programmato e assistito. Un atto di grande pietà e di grande
creatività.
Quando avrete finito di leggere Al cuore della vita, il libro che il francese Jean Claude Ameisen,
immunologo presso l'università Paris VII, ha appena fatto uscire per Feltrinelli (pp. 370, L. 40.000),
la vostra percezione dei due concetti fondamentali che ci accompagnano nel corso dell'esistenza
con il loro carico di irrisolta razionalità e di struggente emotività, il concetto di vita e il concetto di
morte, sarà decisamente cambiata. Già, perché quello di Ameisen non è solo un libro di biologia sul
suicidio delle cellule scritto in modo brillante (ma con una traduzione che, almeno nei termini
tecnici, non è sempre all'altezza) da uno dei più grandi esperti al mondo di apoptosi, cioè di morte
cellulare. Ma, come tutti i grandi testi scientifici, è anche e soprattutto un'opera filosofica. Un
affresco capace di modificare in profondità l'immagine che abbiamo di noi stessi e del mondo.
Per migliaia di anni abbiamo creduto di avere un'idea chiara, assoluta, essenziale di cosa fossero la
vita e la morte. Abbiamo, in verità, sempre avuto una certa difficoltà a definire in modo rigoroso
cos'è, esattamente, la vita. Ma abbiamo anche pensato che questa difficoltà fosse solo apparente,
perché della vita ci sembra di avere un'intuizione immediata (che Kant avrebbe definito apriori). Al
contrario, non abbiamo mai avuto grandi difficoltà a dire cosa sia la morte. La morte ci sembra
qualcosa di opposto alla vita: quando c'è vita, non c'è morte; quando c'è morte, non c'è vita.
Da almeno un paio di secoli, però, la scienza ha cominciato a cambiare queste nostre immagini
intuitive. Da quando Charles Darwin, nel 1859, ha pubblicato Sull'Origine delle Specie, sappiamo che
la vita non è una condizione assoluta, ma è un processo evolutivo. E da quando Claude Bernard,
sempre nel XVIII secolo, ha introdotto il concetto di «ambiente interno» di un organismo vivente in
equilibrio dinamico (omeostasi), sappiamo che vita e morte non sono sempre in opposizione. Il
processo della vita contempla anche la morte. «La vita è morte, la vita è creazione», sosteneva il
grande Bernard. Abbiamo poi imparato che non è possibile dare una univoca definizione di morte:
bisogna distinguere, per esempio, tra la morte biologica di un corpo e la morte cerebrale di una
persona. Ma anche in riferimento a un corpo, Rudolf Virchow già nel 1858 ci avvisava che bisogna
distinguere tra «morte generale» dell'organismo e «morte elementare» (necrosi) delle sue unità
fondamentali, le cellule. Da allora sappiamo che un intero organismo può vivere, mentre alcune
delle sue componenti elementari possono e tal volta debbono morire.
Tuttavia solo da una decina di anni a questa parte, racconta Jean Claude Ameisen, abbiamo
iniziato a capire quanto sia vasto e in che cosa consiste il processo della «morte elementare». E
dalle conoscenze di questo processo, il concetto di morte ne esce radicalmente modificato. Le
cellule che conoscono la morte sono quelle eucariote, le grandi cellule super-organizzate che
compongono gli organismi complessi: le piante e gli animali, per intenderci. Le altre cellule, le più
antiche, le piccole e semplici cellule procariote, non muoiono, si perpetuano duplicandosi in
continuazione (anche se, naturalmente, possono essere distrutte da agenti esterni). La morte è
dunque una condizione degli organismi complessi. È stata «inventata» tardi nel corso
dell'evoluzione della vita (meno di un miliardo di anni fa, mentre la vita sulla Terra è vecchia di
quattro miliardi di anni). E, sostiene Ameisen, è molto probabile che proprio l'«invenzione» del la
morte abbia consentito la creazione degli organismi complessi.
Cominciamo, dunque, a intuire un ruolo davvero insospettato per la morte. Avevamo sempre
pensato alla morte come distruzione. Anzi, come la distruzione assoluta. E scopriamo che, invece,
ha anche un ruolo creativo. Parafrasando Bernard, potremmo dire che «la morte è vita. La morte è
creazione». Di più. La morte, sostiene Ameisen, è uno scultore, che consente alla vita di esplodere
in una gamma inusitata di forme e di diversità. È, per esempio, solo attraverso la morte «altruistica
di alcune cellule, anzi di intere architetture cellulari, che dal blob informe dell'embrione iniziale può
emergere l'articolata e precisa morfologia dell'individuo bambino e poi adulto. La morte, dunque,
come Michelangelo, fa emergere dal marmo informe della vita i lineamenti dell'armonia e della
complessità.
Ma c'è qualcosa di più che viene fuori dai più recenti studi sul funzionamento delle cellule in un
organismo e ribalta le nostre antiche convinzioni: non è la morte l'assenza della vita. Al contrario, è
la vita l'assenza, pro tempore, della morte. Già, perché la morte per suicidio è una tensione
naturale delle cellule, e la vita è la capacità che, in certe precise condizioni, hanno le cellule di
reprimere quella tensione. Quando la cellula si accorge di occupare uno spazio che non è il suo o di
aver terminato il suo compito, quando, cioè, le condizioni ambientali per inibire la tensione al
suicidio vengono meno, allora la cellula «decide» di morire. Cioè di lasciare via libera alle pulsioni
interne che la conducono al suicidio: lucido, dignitoso, con tanto di «rito funebre». La cellula che
«decide» di morire si prepara, infatti, al trapasso con grande compostezza, in modo che la morte
sia dolce, e avvisa, con una serie di segnali, le cellule vicine. In modo che, quando il suicidio è
ormai avviato, esse possano intervenire sia per favorirlo, sia per occupare la posizione lasciata
libera.
Questa è dunque, l'apoptosi: una forza travolgente, ma lucida e creatrice. Certo, quella descritta
da Ameisen è la dimensione della «morte elementare». E ogni estrapolazione dei processi che la
guidano a livello della «morte generale» di un intero organismo sarebbe del tutto arbitraria.
Tuttavia dalla lettura del libro dell'immunologo francese possiamo ricavare una speranza e una
morale che ci ri guarda come organismi complessi. La speranza, abbastanza fondata, è che
l'emergere di questa immagine creativa della «morte elementare e le specifiche conoscenze
biomolecolari possano aiutarci a sospendere, il più a lungo possibile, la «morte generale» dei nostri
complessi organismi (che per fortuna non hanno una pulsione travolgente al suicidio).
La morale è che la natura non ha una morale, se è vero - come è vero - che fonda sul suicidio
sistematico la sua più abbagliante comples sità: quella biologica. Compresa la complessità,
cosciente e libera, di quella specie che il fisico Victor Weisskopf ha definito l'occhio attraverso cui
la natura ha imparato a osservare se stessa.

Pietro Greco