Il romanzo
delle cellule
di Franco Prattico
Gli scienziati gli hanno affibbiato un nome romantico, anche
se un po' buffo almeno alle nostre
orecchie: apoptosi. In greco sta a indicare la caduta autunnale delle foglie,
lo spogliarsi degli alberi
del loro manto verde, l'ingresso in quel periodo di sospensione della vita che
consente alla pianta di
affrontare e superare i rigori dell'inverno. Oggi è usato per descrivere
uno dei fenomeni più singolari
e misteriosi della vita cellulare: quando cioè nel nostro corpo e in
quello di qualsiasi organismo
vivente - formato universalmente com'è noto da miriadi di cellule - una
parte di questi fondamentali
mattoni della vita comincia a morire: non per l'intervento di qualche fattore
esogeno o per un trauma
qualsiasi, ma per «propria mano». Insomma, quando le cellule si
«suicidano». Cioè quando
improvvisamente, e senza alcuna apparente costrizione interna o esterna la cellula
attiva delle
proteine che cominciano a tagliare a pezzi il «sancta sanctorum»
cellulare, il prezioso filamento di
Dna racchiuso nel suo nucleo, e inizia così a smontarsi, a disseccarsi,
a morire insomma, mandando
segnali chimici alle altre cellule che la circondano e che si stringono alla
membrana (al suo guscio
ormai disseccato) e la fagocitano, cioè divorano i suoi resti.
Insomma, la nostra cellula si è «uccisa». Un suicidio in
piena regola. Ma non si tratta di un processo
raro o patologico: è un momento integrante (e addirittura creativo) dello
sviluppo e della vita stessa
dell'organismo: già nell'embrione, nell'utero materno, il suicidio cellulare
«scolpisce» gli organi e
modella la forma definitiva dell'organismo, eliminando una parte delle cellule
appena formate,
favorendo il processo di differenziazione che assicura la formazione di un nuovo
essere. Lo
descrive, in un testo affascinante come un romanzo, pur nel rigore scientifico,
un noto immunologo
francese, Jean Claude Ameisen, dell'Università di Parigi e dell'Inserm:
Al cuore della vita - Il suicidio
cellulare e la morte creatrice, pubblicato in Italia da Feltrinelli (pagg.
370, lire 40.000).
Inesorabilmente, scrive Ameisen, una parte delle cellule che formano il nostro
corpo, in ogni
momento della nostra vita, deve morire: non solo per traumi o per eventi patologici
(necrosi, traumi,
malattie, etc.) ma per propria libera scelta. In un certo senso, «sceglie»
di morire. Non si tratta di un
processo raro o patologico: è invece parte integrante (e creatrice) dello
sviluppo e della vita stessa
dell'organismo.
Comincia molto presto: nell'embrione, nell'utero materno, perché il «suicidio
cellulare» - come scrive
Ameisen - «scolpisce» gli organi, eliminando una parte delle cellule
appena formate, e favorendo in
tal modo i processi di differenziazione delle cellule totipotenti del grumo
primitivo e la successiva
migrazione che presiede alla formazione degli organi, alla loro collocazione
nell'organismo maturo:
un processo che sembrerebbe alla base non solo della forma che assumono i nostri
corpi, e che è
rigidamente programmato dal comando genetico, ma anche dei processi di invecchiamento
e
persino della longevità, nonché di alcuni dei principali mali
che ci minacciano.
Ma perché una cellula, collocata dallo sviluppo al suo posto e ben inserita
nel suo contesto, decide
di uccidersi?
L'indagine citologica (la citologia è appunto lo studio delle cellule)
- spiega Ameisen - è riuscita
finora a stabilire le modalità e gli agenti del suicidio, ma non ancora
le cause.
Non si tratterebbe infatti di un «comando genetico» perché,
sostiene lo scienziato francese,
occorrerebbe una immensa quantità di informazioni genetiche - ben maggiore
di quanta ne potrebbe
offrire il nostro Dna - per programmare il destino di ogni singola cellula;
si tratterebbe invece di un
processo indeterministico e casuale, che stranamente ricorda - almeno nelle
spiegazioni che ce ne
diamo - la «scelta» casuale di un atomo radioattivo di disintegrarsi
o attendere invece ancora
qualche migliaio di anni prima di dar luogo a quel fenomeno che è alla
base della radioattività. Cioè il
«caso» (che forse è solo il nome di ciò che non sappiamo
neppure prevedere) o l'indeterminazione -
che ha un ruolo così importante nel mondo subatomico - percorrono non
solo il mondo della
materia inanimata, ma anche i nostri corpi. Non sarebbe quindi un programma
a scatenare il suicidio
d'una singola cellula, ma l'attuarsi di una potenzialità.
Le ricerche hanno individuato nel patrimonio molecolare della cellula la presenza
di proteine
«esecutrici», che cioè provocano - e altre eseguono - l'uccisione
della cellula, e anche di altre
proteine «protettrici», che impediscono l'esecuzione e vegliano
sulla sopravvivenza della cellula: in un
gioco mortale la cui origine secondo Ameisen - specialista di questo affascinante
settore - andrebbe
ricercata nella più lontana storia della materia vivente, quando (forse
circa un miliardo di anni fa)
cominciarono a formarsi per simbiosi i primi organismi pluricellulari (formati
cioè da una pluralità di
cellule, fino allora gli organismi più complessi sulla superficie della
Terra), composti a loro volta da
organismi unicellulari «eucarioti», ossia provvisti di nucleo (partendo
dall'assunto che ogni cellula
moderna - come quelle del nostro organismo - è una società di
microrganismi e di eredità
molecolari, modellata dal suo passato). .
O forse la storia comincia ancora prima, quando ebbero luogo tremende «guerre»
microscopiche
tra eserciti di batteri per la conquista di ambienti favorevoli al loro sviluppo;
e questi batteri erano
«armati», nel senso che erano stati a loro volta colonizzati da
organismi ancora più semplici
(plasmidi), portatori di proteine «velenose», di tossine, capaci
di uccidere per contatto e di altre
proteine «protettrici» (antidoti), che i batteri avevano fatti proprie
per usarle contro i loro nemici: gli
attivatori del suicidio cellulare e le molecole «protettrici» potrebbero
essere i residui di una
primordiale guerra chimica di qualche miliardo di anni or sono.
Questa (forse) la storia. Ma questa strana facoltà apre oggi la porta
a nuove ipotesi terapeutiche e
anche a riflessioni sull'intreccio tra evoluzione, invecchiamento e morte. Il
suicidio cellulare -
secondo Ameisen - è lo strumento della nostra formazione e laddove viene
a mancare (per esempio
nel cancro, quando le cellule tumorali si «immortalizzano») la nostra
stessa sopravvivenza è in
pericolo. Ma è anche probabilmente l'agente di processi patologici e
in primo luogo
dell'invecchiamento, e forse anche del Parkinson e dell'Alzheimer, e rappresentano
probabilmente le
testimonianze del conflitto nei nostri organismi tra passato e presente, cioè
tra le cellule germinali
(garanzia di sopravvivenza del nostro patrimonio genetico) e quelle somatiche,
destinate a perire una
volta assolto il loro compito.
Perire sì: ma quando? L'apoptosi ci costringerebbe, secondo lo scienziato
francese, a una morte
precoce. Non è detto che i 70/80 anni della durata di vita nelle nostre
confortevoli società siano il
nostro ultimo limite biologico: questo potrebbe collocarsi verso i 130 anni,
ad esempio.
Comprendere meglio l'apoptosi, i meccanismi e le ragioni del suicidio cellulare,
potrebbe aiutarci a
raggiungere nuovi limiti e principalmente - secondo Ameisen - a fare a meno
di quella spiacevole
parentesi che è l'invecchiamento.